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Geremia, una garanzia

Ultimo Aggiornamento: 06/03/2024 14:35
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Sesso: Femminile
unica e inimitabile
17/02/2024 12:00

„Quel giorno c’era il mercato a Sant’Eustachio e voi sapete che per arrivarci con l’Apecar ci impiegavo almeno un’ora e mezza. Quindi alle quattro del mattino avevo già bevuto il mio caffè, messo in tasca lo scatolino di Monsieur Pedron e stavo caricando tutto il necessario fissandolo bene al pianale. Non volevo che gli attrezzi sbatacchiassero ad ogni curva. L’ultima volta che ero arrivato fin lassù, il bottiglione dell’acqua si era addirittura rotto bagnando tutto.
Tiravo le cinghie mentre il motore borbottava tranquillo. I vicini erano abituati alle mie partenze mattutine tranne il giovedì che facevo mercato in piazza nel mio paese.
Era marzo e faceva un freddo becco. Le strade erano lucide dell’umido del lago, ma non c’era più pericolo di ghiaccio. Andavo piano, senza fare troppo rumore, stando ben attento a non far partire l’altoparlante. Mi ricordo ancora quella volta che il guanto mi si era incastrato nella levetta e la signora Bonetti in camicia da notte e bigodini mi urlava dalla finestra che l’avevo fatta morire e resuscitare dalla paura. Mi era dispiaciuto, ma mi aveva anche fatto tanto ridere l’Adalberto, suo marito, che senza dentiera biascicava che la smettesse di urlare, che quelli che non avevo svegliato io, li svegliava lei.
Voi non li avete conosciuti i Bonetti, sono morti prima che voi nasceste. Un gran bel funerale con tanto di banda e sindaco.

Comunque sia quella mattina non ho combinato guai e sono partito con il mio Apecar. Era una meraviglia rosso fiammante. Sui fianchi c’era scritto a formare un cerchio Geremia una garanzia e al centro un coltellaccio e un ombrello incrociati come se si sfidassero a duello.
Appena fuori dall’abitato avevo accelerato. Ci tenevo ad essere puntuale, volevo il posto migliore in piazza, il posto migliore per me.
Così curva dopo curva mi arrampicai per la salita, appena vidi le mura del paese con l’arco, tirai un sospiro di sollievo. Ero sempre un po’ preoccupato che il motore non ce la facesse, ma da lí in poi era piano e si entrava nella piazza quadrata.
Il mio posto era ancora libero. Mi mettevo sempre di fianco alla chiesa lungo la balaustra.
Dovete sapere che già a quei tempi la piazza era bella come oggi, quadrata con tre lati di bar e botteghe e il quarto lato che guardava a precipizio sul lago. Era il mio posto preferito, non solo perché era all’ombra di un tiglio, ma anche perché mentre non lavoravo potevo guardare giù e vedere le barche con le loro vele colorate.
Mi piazzavo in modo tale da poter tenere d’occhio quello che all’epoca si chiamava Caffè Centrale e controllare tutto l‘andirivieni dei clienti e di chi ci lavorava. Il mercato era ben frequentato da quando Monsieur Pedron aveva avuto quel grande successo con le sue perle misteriose. Erano meravigliose e la loro provenienza era il gran segreto del paese. C’erano tante signore che visitavano il suo negozio e già che c’erano approfittavano anche dei miei servigi. Gli affari mi andavano proprio bene a Sant’Eustachio.
Appena arrivato, aprivo lo sportello posteriore. Tiravo fuori la mola con tutto il suo supporto e attraverso la cinghia la collegavo al motore. Quella era un grande novità. Mio padre, quando ancora lavorava, doveva pedalare tutto il giorno per farla girare. Prendevo il bottiglione dell’acqua, lo mettevo nel suo supporto a testa in giù e controllavo che il rubinetto funzionasse bene. Non doveva uscire troppa acqua, ma nemmeno troppo poca.
Quella mattina ero un po’ emozionato e alle sei e mezza avevo finito di preparare tutti i mei attrezzi; non rimaneva altro che aspettare. L’ordinanza del sindaco era chiara: prima delle sette non si poteva far rumore. Alle sette in punto il prete avrebbe suonato le campane, e tutti noi al mercato avremmo potuto iniziare a imbonire le nostre merci e i nostri servizi. Io mi ero stufato di urlare, mi ero procurato gli altoparlanti con un messaggio registrato. Mettevo anche bella musica, tutti ballabili. Il volume non era troppo alto, ma si sentiva bene e capitava che qualche mazurca mettesse in tentazione i passanti che ballavano davanti a me.
Alle volte, se non avevo niente da fare, ne approfittavo anch’io e invitavo le signorine a qualche passo di danza. Certe si schernivano, ma altre apprezzavano volteggiare abbracciate con me. Mia mamma mi aveva insegnato il valzer, la mazurca, il foxtrot e anche il tango, che era il mio preferito. Mi piaceva da morire come la punta del piede strisciava per terra con la frustata finale che avvolgeva la sua gamba al mio polpaccio. Con il rock’n’roll non me la cavavo tanto bene, anche perché a me è sempre piaciuto stringere le donne, mica sballottarle a destra e manca.
Le ragazze si appoggiavano alla balaustra e chiacchieravano aspettando l'occasione di un giro di danza con qualche giovanotto.
Finalmente passò il prete, c’era solo da aspettare lo scampanio e potevo partire con gli altoparlanti.
Nemmeno due minuti dopo, per tutta la piazza si sentiva:
Donne, è arrivato l’arrotino!
Geremia, una garanzia!
Coltelli e ombrelli, sempre belli!
Seguito da un valzer lento, perché era ancora troppo presto per mazurche e polke.
Di fianco a me c’era il salumaio che lodava il suo salame strizzando l’occhio alle clienti. Dall’altra il fruttivendolo imboscato dietro alle cassette, perché la moglie non voleva che servisse le signore.
Via via, la piazza piena di banchetti si riempiva di signore con i loro cesti pronti per essere riempiti di ogni ben di dio.
Il sole illuminava i tendoni colorati e c’era aria di festa. Da lontano vedevo come tastavano i tessuti scambiandosi occhiate severe. In particolare, la signora Morini era una specialista. Toccava tutto prima di scegliere. Ma la sua passione erano i grembiuli. Una volta al mese se ne comprava uno nuovo, doveva essere morbido e resistente, e i colori dovevano starle bene, altrimenti il marito non le avrebbe perdonato quel capriccio. Una volta decisa, estraeva un minuscolo portamonete, pagava e faceva sparire il suo acquisto in fondo alla cesta. Poi in una volata salumaio, fruttivendolo, macellaio, pescivendolo e per ultime le uova in bilico in cima, trattenute da un ciuffo di sedano. Me la immaginavo rientrare a casa, mettere via la spesa e far sparire il grembiule nuovo per mostrarlo a quel tirchione di suo marito solo se era di buon umore.
Per quanto mi piacessero le ragazze, ce n’era una, proprio lì a Sant’Eustachio che rendeva speciale tutto il mercato. Ogni volta portava un coltello da affilare o un ombrello da aggiustare. Quando arrivava mi sbrigavo con tutte le clienti per essere lento con lei. Per prima cosa studiavo la lama e le chiedevo perché me ne portasse sempre una alla volta. Lei mi rispondeva sempre che i coltelli andavano affilati quando ce n’era bisogno e non quando faceva comodo a me. Facevo partire la mola alla minima velocità, regolavo il gocciolio dell’acqua, appoggiavo il coltello, controllavo l’affilatura, ci passavo sopra il pollice, lo lucidavo con un panno e ripartivo da capo. Le restituivo le lame talmente affilate che ci avrebbe potuto tagliare un capello per il lungo. Rimaneva a guardare seria, ma le sorridevano gli occhi e la bocca chiamava baci.
Insomma, ogni settimana verso le nove si presentava al banchetto. La vedevo uscire dal Caffè Centrale, seguivo ogni suo passo. Era bella, elegante nei suoi vestiti dalla vita stretta, ero sicuro che avrei potuto abbracciarla con un braccio solo. Tutta la piazza attorno a lei sbiadiva e nella caciara generale riuscivo a sentire i suoi tacchetti sul selciato per tutto il percorso fino a me. Mi immaginavo di ballare con lei un tango da far girare la testa, di quelli che ogni passo è una tentazione. Era come se sentissi il fruscio delle gonne che si alzano ad ogni giravolta, il suo respiro sulla mia spalla, il suo cuore sul mio petto.
Ma lei non restava mai un minuto di più.
Siccome era la figlia del padrone del Caffè Centrale, avevo preso l’abitudine di andarci a metà mattina per vederla ancora. La prima volta non sapevo cosa ordinare. Non volevo prendere un bicchiere di vino come gli altri uomini per non fare la figura dell’avvinazzato. Il cappuccino mi sembrava una cosa da signori, mentre il macchiato mi ricordava mia nonna. Allora mi decisi per un espresso che non mi sembrava né troppo frivolo e nemmeno troppo serio. Suo padre mi prese in simpatia, così dopo qualche settimana ebbi il coraggio di chiederle di rimanere un pochino più a lungo mentre affilavo coltelli e mannaie, che forse avremmo potuto ballare qualcosa, papà permettendo. Si, si, mi diceva lui, che la mia Delia è fin troppo seria e non troverà mai marito. Almeno se la fai ballare in piazza qualcuno la adocchia.
Lei dietro al bancone arrossì fino alla radice dei capelli ed era bellissima, luminosa come una giornata estiva.
La settimana dopo Delia si fermò di più e appena ebbi finito le mie faccende, misi Mi Tentación di Astor Piazzolla e le chiesi di ballare.
Non ci crederete, ma poco dopo la gente si affollò a guardarci. Io non me ne resi conto subito, perché ero perso negli occhi di Delia. Ballavamo come se non avessimo fatto altro nella vita. Ero partito con i passi semplici, poi azzardai alcune figure e la stringevo sempre più vicina. Lei era perfetta per me, sembrava che i nostri piedi si parlassero sul selciato.
Non era ancora finito il pezzo che la mamma di Delia ci interruppe Guarda che non la devi mica impalmare davanti a tutti! Aggiustami l’ombrello!, e spezzò una stecca davanti ai miei occhi.
Mi staccai subito da Delia, ma avevo capito che era lei.
Settimana dopo settimana, Delia si fermava da me, e ballavamo un tango per la gioia di tutti i presenti, anche se la mamma di Delia sbuffava e si lamentava con tutti dell’arrotino così sfacciato.
Un giorno pioveva forte, il mercato era quasi deserto e tutti erano nascosti sotto agli ombrelli, ma Delia e io incuranti dell’acqua e dei cappotti ci muovevamo nella nostra milonga personale. Con un passo in più la portai dietro all’Apecar, vicino alla balaustra. La baciai e, mentre guardavamo il lago grigio, le dichiarai il mio amore sotto agli occhi di due gabbiani sperduti.

Non so come, Monsieur Pedron della perleria ci vide e mi disse che se era vero amore, avrei dovuto fidanzarmi al più presto, prima che qualcuno me la soffiasse sotto al naso. Certo, ero d’accordo con lui, ma il denaro per un anello di fidanzamento io non ce l’avevo. Lascia fare a me, mi disse, io ti faccio l’anello di fidanzamento e tu per anno mi affili gli attrezzi gratis. Mi sembrava un’offerta molto generosa, perché in un anno non sarei nemmeno riuscito a mettere da parte un quinto di quello che serviva per un anello degno di Delia.
Quattro settimane dopo Monsieur Pedron mi portò uno scatolino minuscolo. Dentro c’era l’anello più bello che avessi mai visto. Una perla rosa, circondata da tanti piccoli brillanti, riluceva sul velluto argentato. Era di una bellezza commuovente, giusto per Delia.
La settimana dopo le avrei chiesto la mano.
Così, come vi ho appena raccontato, con lo scatolino che mi bruciava in tasca ero arrivato in anticipo quella mattina, e appena le campane avevano smesso di suonare avevo fatto partire l’altoparlante.
Quel giorno tutto il paese aveva coltelli, coltellini, mannaie, forbici e forbicine da affilare. Mi avevano portato una quantità di ombrelli rotti che ci avevo dovuto mettere sopra il nome per ricordarmi a chi restituire quelli riparati.
Finché, poco dopo le nove, comparve Delia con il suo coltellino da affilare. Lo misi da parte, perché non stavo più nella pelle. A dispetto della fila di persone misi il nostro tango e la invitai a ballare. Ci fecero subito spazio, si capiva che era un tango diverso, deciso e delicato, un tango che portava da qualche parte.
Subito la signora Morini mormorò gesticolando a una ragazzina vicina, Vai a chiamare i genitori che questo qui esagera con la Delia.
I genitori arrivarono sulle ultime note. Senza lasciarle la mano mi inginocchiai e davanti a tutto il paese la chiesi ufficialmente in sposa. Mi rispose di sì, prima che sua mamma potesse intervenire e io le infilai al dito l’anello che era perfetto per lei.
Il resto lo sapete, perché finisce come nelle favole: e vissero felici e contenti.”
“Ma nonno, ci devi raccontare come il Caffè Centrale divenne All’Arrotino!”
“Questo ve lo racconta la nonna Delia a partire dal giorno delle nozze fino a quando nacquero i vostri genitori. Via, andate in cucina che sono stanco!”
“Nonna! Nonnaaaa!”
OFFLINE
Post: 61
Età: 62
Sesso: Maschile
17/02/2024 19:04

ok sempre un lessico impeccabile
se vede che le è partito l'embolo della scrittrice
grazie rabe
OFFLINE
Post: 344
Età: 100
Sesso: Maschile
17/02/2024 20:37



Ma che bello leggere queste storie di Sant'Eustachio, per un attimo, sempre troppo breve, la realtà e tutti i problemi, i malumori e l'ansia scompaiono...

Bravo, brava, brava...
A quando il prossimo? 😍
OFFLINE
Post: 5.283
Sesso: Femminile
18/02/2024 08:43

Bella la saga di Sant' Eustachio.

In questo caso, per un momento, ho confuso Geremia con Gregorio e pensavo allo stesso racconto dal punto di vista di un altro personaggio.

Speriamo che si metta a raccontare anche nonna Delia...


-+-+-+-+-+-+-+-
Cadi sette volte, rialzati otto
OFFLINE
Post: 45
Età: 59
Sesso: Maschile
02/03/2024 16:46

Bello, romantico... e la madre di Delia guastafeste che riesce quasi a mandare a monte tutto. Trasposizione di qualche persona reale immagino, perché qualcuna così l'ho conosciuta anch'io.
Ma ha vinto l'amore, ed è questo che importa.
Complimenti Rabe.
OFFLINE
Post: 242
Sesso: Femminile
unica e inimitabile
06/03/2024 14:35

Nonna Delia non ha ancora iniziato a raccontare, ci sta ancora pensando
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